Il sagrato
L’accesso alla chiesa è consentito grazie alle due scalinate che conducono al sagrato: ricordano il fatto che la chiesa rappresenta la santa montagna, il luogo dove il cielo e la terra si toccano, dove l’uomo incontra Dio. Il sagrato è uno spazio intermedio, erede del pronao dei templi antichi dove sostavano i non battezzati: oggi rappresenta l’anello di congiunzione tra la chiesa e la città. La comunità vi accoglie con simpatia coloro che vi sostano per riposarsi o sono in attesa di accedere al luogo sacro. Attraversando il maestoso portale si entra in uno spazio diverso: facendo memoria del battesimo si passa attraverso Cristo stesso che dice di sé: “io sono la porta” (GV 10,7).
L'interno
La nostra chiesa ha una sola navata con altari laterali addossati alle pareti, un transetto poco sporgente ed un presbiterio rialzato dove si trovano l’altare e il coro. La navata rappresenta la realtà della chiesa, il corpo mistico di Cristo: qui si riuniscono i cristiani come nella loro casa comune. L’altare monumentale è il centro a cui tutto l’edificio è orientato (Angeli e ciborio sono di Giuseppe Mazzuoli). In basso si trova la mensa dove si offre il sacrificio eucaristico ed in alto si staglia un grandioso ciborio circondato da angeli che ancora oggi durante la settimana santa ospita il Santissimo Sacramento. Gli scalini che conducono alla mensa alludono alla posizione elevata del Golgota dove si consumò il sacrificio del Cristo. Questo manufatto è dovuto al mecenatismo della famiglia aristocratica De’ Vecchi che nel ‘600 impegnò per la sua realizzazione gli scalpellini e scultori senesi Giovanni e Giuseppe Mazzuoli, ai quali sono dovute anche le statue rispettivamente del santo agostiniano Tommaso da Villanova (1486-1555) sull’altare del transetto destro e della Madonna col bambino sull’altare di quello sinistro. A Giovanni Antonio Mazzuoli si devono invece i monumenti sepolcrali di Camillo e Virgilio De’ Vecchi sopra le due porte che si affacciano sul presbiterio. Sopra l’altare pende un baldacchino ligneo dorato, segno di rispetto per il Santissimo Sacramento conservato più in basso.
Il coro
Sempre sul presbiterio, ma dietro all’altare, si trova un coro ligneo, usato dai religiosi che in passato hanno officiato la chiesa per la preghiera comune. Al centro del coro si trova un grande leggio su cui venivano posti i libri liturgici di dimensioni tali da poter essere letti da chi sedeva negli scranni. In una nicchia nella parete dell’abside si offre alla venerazione dei fedeli la statua lignea (del ‘500) di San Nicola da Tolentino (1245-1305), santo agostiniano, memoria dei religiosi che risiedevano a San Martino nei secoli andati. Sopra di essa la vetrata, forse del Pastorino, che risale al ‘500 raffigurante San Martino e il povero, unico riferimento in tutta la chiesa al santo a cui è dedicata. Essa coglie il momento saliente della vita di Martino, quando di fronte al povero nudo che incontra davanti alla città di Amiens, egli, ancora nemmeno cristiano, con slancio divide in due il suo mantello per donarne la metà al disgraziato che ha di fronte (Sulpicio Severo, Vita Martini, 3, 1-6).
Gli affreschi del coro si devono ad Annibale Mazzuoli e rappresentano San Martino in gloria circondato dalle Virtù (1700). Il Mazzuoli fu apprezzato pittore, ne fa testimonianza il fatto che Papa Clemente XI gli commissionò il restauro di varie pitture in Vaticano tra le quali gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, eseguito dal 1710-1712.
Gli altari
Continuando la visita della navata, troverai sui due lati diversi altari che in passato godevano del patronato di nobili famiglie cittadine che spesso ne curavano l’edificazione e il mantenimento attraverso prebende che aiutavano il clero regolare o secolare che serviva la chiesa a mantenersi. Era anche una forma per assicurare un legame stretto tra chiesa e territorio limitrofo: famiglie come i De’ Vecchi o i Gori si prendevano cura della chiesa dove i loro membri erano stati battezzati, si erano sposati o erano sepolti. Mentre la forma e la decorazione degli altari hanno una loro coerenza, il progetto iconografico non mostra una linea riconoscibile, spesso dovuto alla devozioni dei committenti o ad altri motivi occasionali. Sul primo altare di destra possiamo venerare una riproduzione della Madonna col Bambino di Naddo Ceccarelli (prima metà del ‘300) all’interno di una tela attribuita a Crescenzio Gambarelli, sul secondo – di patronato Gori – abbiamo la tela raffigurante la Circoncisione di Gesù (1636 ca.) dovuta al grande manierista Guido Reni. Sul terzo altare, un’opera del Guercino, il Martirio di San Bartolomeo (1637), purtroppo poco leggibile. Sul lato sinistro della navata, nel primo altare, la Gloria di S. Ivone di Raffaello Vanni (prima metà del ‘600), nella nicchia del secondo una crocifissione policroma con statue lignee tra ‘400 e ‘500 e sul terzo un autentico capolavoro di Domenico Beccafumi che raffigura la Natività di Gesù (1524 ca.).
Nelle due controfacciate troviamo a sinistra una tavola di Giovanni di Lorenzo Cini che rappresenta la Madonna che protegge Siena (commissionata dal Comune nel 1528) mentre in basso si svolge la famosa battaglia di Camollia (1526), e a destra una tela dei Quaranta Martiri di Ilario Casolani (prima metà del ‘600).
Itinerario Cristologico
A dispetto di una certa casualità dei soggetti non è difficile riconoscere che nella parte bassa del tempio sono raffigurati gli episodi della vita di Cristo e di Maria, come anche le immagini dei santi che hanno seguito ed imitato Cristo nella loro vita mortale. Attraversando la chiesa è possibile percorrere un vero e proprio itinerario cristologico di fede. Questa specie di pellegrinaggio può iniziare davanti alla tavola della Natività di Domenico Beccafumi (ca. 1524).
Al centro di questa opera contempliamo il mistero dell’incarnazione del Verbo. In alto l’arco di trionfo parzialmente in rovina simboleggia il superamento del paganesimo col conseguente inizio di una nuova era nella storia del mondo, inaugurata dalla nascita del divino bambino. Il coro angelico indica che si tratta di un evento celeste: il bambino, all’apparenza come tutti gli altri infanti, cela un’identità ulteriore, quella divina. La colomba, segno dello Spirito Santo, allude all’effusione di grazia che comporta ogni evento della vita del Cristo. La scena in basso, al centro della raffigurazione ci mostra Maria nell’atto di svelare il bambino che in tal modo è mostrato alla vista adorante degli astanti: Giuseppe ed i pastori. Le mani di diversi personaggi – tra cui un altro angelo – convergono nell’indicare l’infante come il centro, non solo della scena narrata, ma della storia del mondo e di ogni credente. I tralicci quasi pericolanti che appena suggeriscono la presenza di un riparo sono un segno della precarietà della condizione umana che Cristo ha abbracciato con l’incarnazione e che ognuno di noi condivide.
L’opera di Guido Reni che rappresenta la circoncisione di Gesù (1636) segna la seconda tappa del nostro itinerario ideale sulle orme di Gesù.
L’episodio evangelico narrato da San Luca (Lc 2,21-38) viene riproposto dall’artista con notevole esattezza di particolari. La presenza di elementi architettonici classici suggeriscono lo sfondo del Tempio di Gerusalemme come setting dell’episodio. Al centro il bambino circondato da sacerdoti del Tempio, tra cui uno che sta per procedere alla circoncisione mentre il bambino volge lo sguardo altrove, quasi presagendo lo strazio imminente. Al di sotto, un angelo sorregge un piattino per raccogliere il lembo di carne amputato dal sacerdote, pur sempre parte della vera carne del Salvatore. Maria e Giuseppe stanno al lato destro della scena insieme ad una figura femminile che reca in un cestello le colombe dell’offerta a significare l’adempimento di tutta la legge. In basso a sinistra un agnello abbracciato da san Giovannino che sorregge una croce suggerisce il legame di tutti i misteri della vita del Cristo che conducono e preludono alla Croce che ne costituisce l’apice e lo svelamento.
Il mistero della salvezza ottenuta dal sacrificio di Cristo sulla croce è rappresentato nel gruppo ligneo policromo opera di anonimo quattrocentesco che si trova all’interno di una nicchia in questo altare. La raffigurazione non allude semplicemente a motivi teologici, ma è tale da toccare emotivamente gli astanti, ed infatti il crocifisso di San Martino fino a qualche decennio addietro era il centro di una festa annuale tra le più popolari della città. Una nicchia tinteggiata di azzurro, con applicate stelle dorate abbraccia e circoscrive la scena: è il firmamento che nella sua indeterminatezza suggerisce il valore universale della crocifissione. Al centro il Cristo patiens inchiodato alla croce con un’espressione dolente e dolce allo stesso tempo che trasmette accanto allo strazio l’amore per tutta l’umanità. Ai lati, in basso, Maria a destra rivolta alla navata, quasi ad abbracciare con lo sguardo i figli che Gesù le ha donato dalla croce, e, a sinistra, Giovanni, il discepolo amato, con il volto orientato a Gesù e l’espressione accorata. Sotto il basamento della croce le pietre che rappresentano il Calvario.
Nella controfacciata di sinistra sta una tavola risalente al 1528 di Giovanni di Lorenzo Cini che rappresenta la protezione di Maria sulla città durante la battaglia di Camollia (1526). E’ l’ultima tappa del nostro itinerario cristologico. Rappresenta il tempo della chiesa, racchiuso tra l’incarnazione e l’ultima venuta di Cristo nella gloria. E’ il nostro evo, in cui la prosecuzione del Cristo nella storia, il suo Corpo Mistico, la Chiesa, vive, gioisce e soffre, sotto la protezione materna di Maria, alla quale Cristo stesso in croce l’ha affidata. Il manto della Madonna, sorretto da angeli a dispiegarsi sull’intera città, protegge coloro che combattono la buona battaglia della fede. In alto le schiere angeliche del Paradiso richiamano la città celeste, nostra meta ultima, mentre in basso si svolge la battaglia di Camollia in cui si registrò una strepitosa vittoria dei senesi contro soverchie forze fiorentine e papali, letta tradizionalmente come un’ulteriore prova della potenza dell’affidamento della città a Maria.
La cupola
La cupola sopra il transetto allude alla gloria dei cieli ed è decorata con allegorie diverse dovute ad Annibale Mazzuoli che le affrescò alla fine del ‘600. La presenza di una cupola rimanda alla natura del tempio di microcosmo eretto tra i due spazi della terra e del cielo, allo scopo di connetterli. Questa unione è dovuta teologicamente all’incarnazione del Verbo, vero ponte tra Dio e gli uomini, via per cui le creature possono risalire al Padre attraverso la mediazione del Figlio. Artisticamente, tutta l’iconografia di Gesù, di Maria e dei santi riporta a questa realtà.
La cappella degli Agazzari
Sul lato sinistro dell’altare si apre una porta che introduce in una cappella, detta degli Agazzari, la cui decorazione risale al 1300, quando la chiesa era officiata da una comunità di Canonici Regolari di San Frediano in Lucca. Probabilmente questo ambiente nacque come cappella funeraria della nobile famiglia Agazzari, il ché sembrerebbe testimoniato dalla presenza di una raffigurazione del Cristo Giudice sopra la grande monofora gotica. Gli affreschi che ornano la cappella testimoniano l’influenza di Duccio da Boninsegna in almeno tre generazioni di pittori a lui posteriori. Passare dalla grande chiesa a questo ambiente alto, ma raccolto, produce quasi uno shock, un salto a ritroso dal barocco al gotico, a testimonianza che nelle varie epoche il nostro tempio è stato oggetto di cure per adattarlo a diverse esigenze del gusto e del culto.